Τετάρτη 25 Μαρτίου 2015

Il racconto di Jasmine, madre surrogata dei figli di Mirco e Patricio/La storia di Natasha, madre surrogata / Cari Dolce e Gabbana, Busi e Tamaro

http://www.la7.it/le-invasioni-barbariche/video/mirco-e-patricio-e-la-storia-della-loro-famiglia-arcobaleno-25-03-2015-150817

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gestazionesurrogata
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In "Madri, comunque" (Fandango) Serena Marchi racconta trenta storie di maternità (o rifiuto della maternità)

 «Questi figli non hanno niente di me»
«Mi chiamo Natasha, ho ventinove anni, sono sposata da undici e sono mamma di un bambino di nove (…). Sono una macchina perfetta per procreare. Non lo dico io. Me lo ripetono i medici della clinica Biotexcom di Kiev, una delle più famose strutture in cui è possibile praticare la maternità surrogata (…). Io ho un solo figlio, la più grande gioia della mia vita. Gli altri che ho messo al mondo sono i figli di qualcun altro. Non mi ricordo né il giorno in cui sono nati né se erano maschi o femmine, nemmeno quanto pesavano. Non mi interessava e non mi interessa. Questri bambini non hanno niente di me, non hanno il mio Dna, non verranno educati da me. Io li ho solo partoriti, ho aiutato chi naturalmente non lo poteva fare».
La storia di Natasha, raccontata da Serena Marchi nel suo libroMadri, comunque (Fandango, 190 pp, 15 euro), potrebbe essere una (soltanto una, tra tante) risposta ad Aldo Busi, che qualche giorno fa scriveva delle madri surrogate come di «donne degradate a bestie produttrici di placenta», o a Susanna Tamaro, per la quale «lo sfruttamento del corpo di un altro essere umano per i propri fini rientra nella categoria dello schiavismo». Commenti duri, all’indomani del caos procurato dalle dichiarazioni di Domenico Gabbana sui «figli sintetici» e dal boicottaggio dei loro abiti annunciato da Elton John sui social network, e dell’esclusione dei single dalla possibilità di adottare un bambino.
Nel momento in cui è stata intervistata,Natasha era alla quarta gravidanza, stava aspettando i gemelli di una coppia tedesca. Racconta a Serena Marchi: «Durante le gravidanze che faccio per altri genitori non penso mai: “Questo figlio è mio, me lo tengo”, perché so dal primo momento che non lo crescerò, che lo partorirò e poi lo darò ai suoi genitori… Anche adesso, quando sento i gemelli muoversi, quando ho le nausee e mi duole la schiena, non si crea quel legame materno che ho avuto fin da subito con mio figlio».
Natasha non si sottrae alle considerazioni di tipo economico.
«Lo sapete tutti che vengo pagata, per affittare il mio utero. Diecimila euro a parto, quindici se sono gemelli (lo stipendio medio mensile in Ucraina è 150 euro). Non c’è niente di male nel farlo. Questi soldi servono per comprare una casa più grande in cui possa andare con la mia famiglia, con mio marito e mio figlio, gli unici amori della mia vita. Il mio corpo è fatto per procreare, perché non usarlo per aiutare la mia famiglia a vivere in condizioni migliori e al contempo rendere felice una coppia di genitori?».
In Madri, comunque, non c’è solo Natasha. Ci sono Giovanna, mamma in affido; Simonetta, mamma lesbica; Elena, mamma per pochi secondi dei figli degli altri (è ostetrica); Teresa, mamma di un figlio omosessuale. Trenta storie con altrettante declinazioni della maternità (e della non maternità), asciutte, raccontate senza giudizio con piglio da cronista. Perché oggi, nel 2015, di mamma non ce n’è una sola. E bisogna cominciare a scoprire tutti i suoi nuovi volti.


Cari Dolce e Gabbana, Busi e Tamaro

Claudio Rossi Marcelli
Storia numero uno. Il primo è stato lo stilista siciliano Domenico Dolce. Inun’intervista rilasciata a Panorama insieme al collega Stefano Gabbana per promuovere la loro nuova collezione e i loro vecchi valori, ha dichiarato:
Tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. Sono gay, non posso avere un figlio. Credo che non si possa avere tutto dalla vita, se non c’è vuol dire che non ci deve essere.
A pochi giorni dall’inizio del nostro boicottaggio di Armani, colpevole di aver allacciato il mantello a Madonna troppo stretto e di averla fatta cadere dal palco, adesso ci tocca boicottare anche Dolce e Gabbana. Che strazio. E così io, sotto gli occhi dei miei tre vivacissimi bambini sintetici, ieri ho dovuto tirar fuori dall’armadio tutti – ma proprio tutti – i miei perizomi di Dolce e Gabbana e farne un falò.
L’idea me l’ha data Courtney Love: lei, però, mentre tentava di dare fuoco a un vecchio portaocchiali Dolce e Gabbana, siccome era ubriaca ha finito per dare fuoco a tutta casa (sono già attivi gli hashtag di sostegno ‪#‎JeSuisCourtneyLove‬ e‪#‎JeSuisUbriaca‬). Ora noi omosessuali modaioli viviamo nel sacrosanto terrore che Miuccia Prada sia la prossima a fare un passo falso – tipo dichiarare che solo le donne possono mettersi le sue scarpe con il tacco a spillo – e a costringerci a boicottare anche lei.
Il che ci lascerebbe letteralmente in mutande, visto che i tanga li abbiamo già bruciati tutti e che abbigliamento di marche meno fashion di Armani, Dolce e Gabbana e Prada, lapidateci, ma non ce la sentiamo proprio di portarlo.
E non pensiate che vedere dei gay in mutande sia un bello spettacolo: sono finiti i tempi dei ragazzi muscolosi sui carri del pride. Ora siamo tutti padri di bambini sintetici, portiamo mutande sintetiche e, visto che nel frattempo il boicottaggio di Barilla è finito, non risparmiamo neanche un carboidrato sulla nostra strada.
Il mio quindi è un appello accorato a Miuccia: Miuccia, se mi stai leggendo, ti prego, tieni la bocca chiusa. Non costringerci a sguinzagliarti contro Heather Parisi e Victoria Beckham, perché poi qualcuno si farà male davvero.
Storia numero due. Lo scrittore Aldo Busi scrive un commento per il Corriere della Sera in cui si scaglia contro la pratica della gestazione per altri e scrive:
Voi, cantanti, stilisti e ormai anche droghieri, prefetti e borghesi gay, sapete chi sono queste donne da voi degradate a bestie produttrici di placenta, sapete dove stanno e si dibattono forse insensibili e immobili, andate a prenderle e portatele via da lì, e fa niente se sono in un ospedale psichiatrico, in una prigione o in un resort di lusso, fategli vedere questi figli tuttora più loro che vostri, metteteglieli in grembo, che si tocchino, si abbraccino e, se queste donne hanno bisogno di cure, è vostro dovere provvedervi al massimo livello economico e affettivo. Una volta fatto ciò, potrete rispondere al sorriso di questi neonati con un sorriso mondato finalmente dalla cattiva coscienza che io almeno presupporrei in me se fossi al vostro posto, perché qualche dovuto passaggio nella maturazione sentimentale e civile bisogna proprio averlo saltato per essere dei padri e degli educatori felici sulla pelle di madri alienate, lontane, allontanate, vive e morte a sé: vive in vitro.
Dopo aver letto per l’ennesima volta la struggente chiusa del pezzo di Busi, mi sono convinto che era giunto il momento di guardare in faccia la realtà e seguire il suo consiglio. Ma poi, no, aspetta un attimo Busi: noi i biglietti per andare a trovare Tara li abbiamo già comprati settimane fa! Come facciamo sempre quando possiamo, ad aprile andremo a passare un po’ di tempo con la donna che ci ha aiutato a costruire una famiglia.
Tara non abita in manicomio e neanche in un resort di lusso, perché abita a casa sua con i suoi figli e se io mi presentassi con le lacrime agli occhi “per portarla via di lì e provvedere a lei a livello economico e affettivo”, mi direbbe: “Claudio, ma cos’è oggi, hai bevuto?”.
Se le raccontassi che un certo scrittore italiano dice che l’abbiamo ridotta a produttrice di placenta credo che si metterebbe a ridere, e proprio a ridere di brutto. Ma in ogni caso, quando saremo tutti con lei tra qualche settimana, non avrò tempo di parlarle di Busi, perché saremo troppo occupati a preparare il barbecue, ad andare a trovare sua madre in campagna o a parlare male del nuovo marito della vicina.
Ebbene sì, perfino quel cesso del nuovo marito della vicina è per noi un argomento più rilevante della struggente tragedia immaginaria descritta da Busi, perché quell’uomo così brutto esiste, mentre la tragedia di Busi per noi no. È una fiction di Raiuno, è drammatizzazione, è l’elevazione a verità assoluta dell’abuso compiuto da qualcuno, ma non da tutti. E soprattutto non da noi. E non dai tanti amici che hanno costruito una famiglia con l’aiuto di qualcuno.
Tara sta benissimo, grazie. È viva, e vive felicemente fuori dal vitro. I nostri figli se la passano benone. E la mia coscienza pure, caro Busi. Ringraziando il cielo faccio parte di una generazione di omosessuali che è cresciuta senza essere costretta a odiare se stessa e non sarà la sua scarsa conoscenza delle dinamiche in atto nella gestazione per altri a costringermi a farlo.
Storia numero tre. Nel dibattito pubblico è entrata anche la scrittrice Susanna Tamaro, che ha firmato sul blog del Corriere un intervento a favore dell’adozione dei single e contro la gestazione per altri, scrivendo tra l’altro:
Personalmente, come essere umano e come donna, sono sempre stata inorridita da questo termine. Un utero in affitto, come un bungalow o una macchina in affitto. Peccato che non tutti ricordino, come ha ben detto Busi, che intorno all’utero c’è un essere umano, vale a dire una donna. Una donna che, nella maggior parte dei casi, si trova in condizioni di difficoltà e che è costretta a vendere la parte più intima e sacra della sua vita per poter sopravvivere. Naturalmente, chi usufruisce di questo ‘servizio’ si trincera dietro l’animo nobile del benefattore. Quei soldi, in fondo, toglieranno una famiglia dalla fame, si sostiene.
Signora Tamaro, il suo commento, così come quello di Aldo Busi, si basa su un equivoco di fondo: la gestazione per altri non è necessariamente una forma di sfruttamento. La sua affermazione secondo cui una donna che porta avanti una gravidanza per altri “nella maggior parte dei casi, si trova in condizioni di difficoltà ed è costretta a vendere la parte più intima e sacra della sua vita per poter sopravvivere”, non sono sicuro su quali dati o statistiche si basi, anche perché non credo ne esistano.
Io posso dirle che io e mio marito siamo diventati genitori grazie all’aiuto di una donna americana che ha scelto in piena libertà di aiutarci. Non c’è stato nessuno sfruttamento, glielo assicuro, e da parte di questa donna non ce n’era nessun bisogno oggettivo o economico. Voleva farlo. E l’ha fatto, ed è ancora molto felice di averlo fatto.
Sono anni che mi batto contro l’orrore del termine “utero in affitto” e ripeto che intorno a quell’utero c’è anche una donna, con un cervello e un potere di autodeterminazione.
Ovviamente io non sto negando che i casi di sfruttamento esistano e che siano una pratica riprovevole, le sto dicendo solo che una strada corretta alla gestazione per altri esiste, e io so che esiste perché l’ho percorsa, e come me l’hanno percorsa molti amici e conoscenti. Tutti mantenendo uno stretto legame di profondo affetto e riconoscenza verso la donna che ci ha aiutato. Per noi e per lei, è stata un’esperienza incredibilmente umana.
Il fatto che esista la possibilità di abusare di una pratica, non vuol dire che bisogna vietarla a tutto campo, perché sarebbe come dire che siccome esiste l’usura allora chiudiamo tutte le banche. La gestazione per altri, qualora ci siano tutte le garanzie che permettono di assicurarsi che una donna stia compiendo un atto in piena libertà, non è un male, al contrario, è una fonte di vita e di felicità. E questa è una distinzione che ancora in pochi, per mancanza di informazione, riescono a fare.
Ora, prima che qualcun altro decida di esprimere la sua opinione senza conoscere davvero i fatti, costringendomi all’ennesima risposta, vorrei dire un’ultima cosa: mi sembra ridicolo che in un paese come l’Italia, dove le persone omosessuali sono quotidianamente discriminate e aggredite, dove non esiste una norma contro l’omofobia, dove l’unione di due persone dello stesso sesso non è riconosciuta in alcun modo, dove milioni di gay, lesbiche e transessuali devono lottare ogni giorno per veder riconosciuta la loro pari dignità davanti alla legge, si debba invece perdere tempo a parlare di gestazione per altri, che comunque la si pensi, resta per ora un fenomeno circoscritto e irrilevante per la stragrande maggioranza delle persone omosessuali.
Cari Dolce e Gabbana, Busi e Tamaro: prima di arrovellarci sul dibattito per decidere se sia corretto o meno quello che fanno una manciata di coppie gay, non dovremmo occuparci di garantire piena dignità alla moltitudine di persone omosessuali che abitano nel nostro paese? C’è una proposta di legge che sta faticosamente trovando la sua strada in parlamento, a quando un vostro editoriale, post o intervista su questo?

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